I cosmetici sono sempre più vegan
C'è aria di nuovo nel beauty case. Sull’onda della tendenza green & clean tanto amata dalle Millennials e dalla Generazione Z, convinte sostenitrici di uno stile di vita naturale, ora è il momento dei cosmetici vegani. Un mood confermato dalle statistiche: per gli analisti di Grand View Research, il mercato dei prodotti di bellezza bio varrà circa 21 miliardi di dollari entro il 2025. Ma il vero boom riguarda quelli vegan. E non solo tra i brand di nicchia o i cosiddetti indie, i piccoli marchi che non appartengono alle multinazionali, ma anche tra le grande aziende cosmetiche che, sempre più spesso, offrono intere linee vegan, cioè prive di ingredienti di provenienza animale.
Perché il beauty vegan piace tanto
Alla base di questa tendenza beauty c’è il pensiero vegano: sempre più condiviso (le statistiche parlano di cifre raddoppiate negli ultimi anni), esige prodotti cruelty free non solo in fatto di scelte alimentari o di vestiario, ma anche di cure estetiche. E a domanda, si sa, corrisponde l’offerta.
Perché il vegan è diverso dal bio
Leggere bene l’etichetta è fondamentale. Prima di tutto deve comparire la certificazione. I loghi più diffusi da cercare sulla confezione sono la “V” con il girasole (il marchio internazionale rilasciato dall’autorevole Vegan Society inglese) e il marchio italiano VeganOK, che di solito si affiancano a Icea e Lav. «Questa certificazione, però, non assicura che si tratti anche di un prodotto bio» avverte Romano. Se vuoi una crema green, oltre che vegana, controlla con attenzione l’INCI, che riporta gli ingredienti in ordine decrescente: più quelli di origine vegetale compaiono in alto e numerosi, più il cosmetico può definirsi sia naturale sia vegano.
Curiosando in etichetta, potrai trovare anche il simbolo del coniglietto che corre: identifica il prodotto come cruelty free, ma non è una prerogativa vegan. «Quest’ultimo certifica due punti: che il prodotto è conforme alla norma del 2013 dell’Unione Europea, che vieta in ambito comunitario i test sugli animali sia sul prodotto finito sia sulla materia prima. E che in nessun processo industriale è stata praticata la “crudeltà sugli animali”, né dall’azienda né nei Paesi non soggetti al divieto e in cui il prodotto viene venduto» conclude l’esperta.
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